lunedì 25 aprile 2016

LACAN A ROVESCIO

Dopo un primo lungo lavoro sulla logica del significante e su come sono presi e articolati in tale logica soggetto, desiderio e godimento, Lacan prende alla lettera l’idea che il linguaggio faccia corpo, che il corpo umano sia costituito, segnato, marchiato dal significante, ma in maniera tutt’altro che simbolica, «da non intendersi per nulla come metafora». Dice Pagliardini: «l’altro versante del significante è caratterizzato invece dall’essere sempre in atto come rovescio di questo e di esserlo nella “forma” alluvionale di un ammasso di elementi sparsi, come corpo sonoro, “corpo contundente”». Il campo d’indagine di Pagliardini è dunque questa altra, problematica, faccia del significante.

Continua su Psychiatry on line: http://www.psychiatryonline.it/node/6196


sabato 16 aprile 2016

IL VUOTO AL CENTRO DEL REALE. SULLA FEDELTA' ALLA COSA

La rappresentazione e il vuoto, suo impossibile. Quale intreccio, quali implicazioni, tra psicoanalisi e arte?

Nel testo che prendo come riferimento in questo lavoro, il Seminario VII di Jacques Lacan, lo psicoanalista avvia il suo primo studio dettagliato di ciò che lui stesso definirà il registro del reale e delle implicazioni profonde del rapporto impossibile che l’uomo vi intrattiene. Sappiamo infatti come l’essere umano sia caratterizzato dal dispositivo del linguaggio, che si pone come termine antitetico al reale, da cui il celebre aforisma hegeliano “la parola uccide la cosa”. Ed è proprio la Cosa, con la maiuscola, la freudiana Das Ding, che è alla base, all’origine – un’origine sempre già cancellata – della struttura del soggetto. La questione fondamentale per la psicoanalisi lacaniana, a partire dal Seminario vii è: in che rapporto stanno soggetto e Cosa? Il soggetto è classicamente una mancanza-a-essere, un niente, una inconsistenza che è “rappresentata da un significante per un altro significante”; Das Ding è l’elemento la cui perdita innesca l’apparato psichico tutto. Da questa speculazione intorno al vuoto e a quelle che potremmo definire le assenze fondanti l’individuo, si apre un nuovo lungo periodo dell’insegnamento dello psicoanalista parigino. Un altro modo di intendere questa psicoanalisi potrebbe essere questo: un’indagine su ciò che del simbolico si è sempre conosciuto, cioè la dimensione dell’assenza necessaria alla nascita del simbolo, ma su cui si è sempre fatta poca attenzione. Prendendo sul serio il versante della assenza della Cosa, la conseguenza importante e ineludibile è che la Cosa per l’umano – animale di linguaggio – è da sempre assente, cancellata; la natura è persa, l’origine mitizzata, l’istinto pervertito dalla presenza del linguaggio e della cultura. [Continua su Critica Impura]





Secondo capitolo, "La funzione del bello. Il soggetto a un passo dall'eclissi". Seconda parte: https://criticaimpura.wordpress.com/2016/03/30/6121/

Terzo capitolo, "Il girotondo della memoria. Note su 8½ di Federico Fellini". Prima parte:
https://criticaimpura.wordpress.com/2016/04/10/il-girotondo-della-memoria-su-8%C2%BD-di-federico-fellini-12/


Terzo capitolo, "Il girotondo della memoria. Note su 8½ di Federico Fellini". Seconda parte:
https://criticaimpura.wordpress.com/2016/04/12/il-girotondo-della-memoria-su-8%C2%BD-di-federico-fellini-22/

Conclusioni: https://criticaimpura.wordpress.com/2016/04/22/il-girotondo-della-memoria-su-8%C2%BD-di-federico-fellini-conclusioni/


martedì 20 ottobre 2015

MELANCOLIA

Recensione al volume "Melancolia. Storia del problema, endogenicità, tipologia, patogenesi, clinica", di Hubertus Tellenbach, nella sua nuova edizione a cura de Il Pensiero Scientifico. 
In "Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 18, 2015 (II) - Confini animali dell’anima umana. Prospettive e problematiche".


“Sa di cenere”, dice Justine mentre mangia il polpettone cucinato da Claire. Per sanare il malessere della sorella, Claire le ha preparato “una sorpresa” per cena, qualcosa che punta al risveglio dei sensi. Ma questo, per Justine, caduta in un severo stato di tristezza vitale, semplicemente non funziona. Il buon polpettone sa di cenere, è bruciato. La sua bocca sente il sapore della morte, non è più zona erogena. Il suo corpo è diventato recettore attento della caducità delle cose del mondo.





giovedì 14 maggio 2015

PER UNA SCHIZOCULTURA

Recensione al volume "Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale", a cura di Pietro Barbetta e Enrico Valtellina (Manifestolibri 2014), in Lo Sguardo - Rivista di filosofia, Tropi del pensiero. Retorica e filosofia, N. 17, 2015.


Come spiegare la fascinazione del giovane studente di psicologia per il giovane studente di lingue schizofrenico Louis Wolfson? Uno s’incammina sul lungo percorso delle scienze psicologiche perché ha intravisto la sragione, perché almeno una volta nella vita si è accorto che il senso non basta. Ci si affeziona – nel duplice senso del termine – a questa sragione, vuoi per debellarla, vuoi per accoglierla e riconoscerla, vuoi per l’ingenuo desiderio di risolvere quella altrui, per poi incappare nell’inganno istituzionale. Una volta giunto qui, il malcapitato è ormai dentro una bolla isolante fatta di parole e categorie che tengono a debita distanza la follia. 


(Continua su Lo Sguardo, rivista di filosofia: 


lunedì 28 luglio 2014

LACAN, OGGI. SETTE CONVERSAZIONI PER CAPIRE LACAN

Recensione al libro di Sergio Benvenuto e Antonio Lucci (Mimesis 2014), in Lo Sguardo - Rivista di filosofia, La differenza italiana, N. 15, 2014 

Il Reale, un significante che denota ciò che nella complessità di una vita umana dovrebbe essere un’ancora sicura e immediatamente raggiungibile diventa, con Lacan, il campo dove l’uomo non è più di casa. Sembrava essere tale l’inconscio freudiano, ma anche questo è fatto di pasta significante, ponendosi dunque come il rovescio della coscienza, topologicamente interno al campo dell’esperienza umana simbolico-immaginaria. Reale in Lacan è invece l’impossibile, il flusso dell’esperienza al di là dello spazio logico formato dagli estremi soggetto-oggetto, coscienza-mondo, Io-Altro. «Basti pensare a espressioni correnti come “non ho ancora realizzato che sono vedovo”. E a chi “non realizza” ancora, diciamo “bisogna che tu te ne faccia una ragione”. Implichiamo Reale e Ragione. Queste espressioni dicono in effetti che una cosa è che l’Io sappia certe cose, altra cosa che io “realizzi”».


(Continua su Lo Sguardo - Rivista di filosofia: 


venerdì 25 luglio 2014

BLOB. L'EMORRAGIA DELL'IMMAGINARIO


in "Non fate i bravi. Educare e normalizzare in Italia oggi", a cura di Claudia Boscolo, http://www.psychiatryonline.it/node/5111


Nel 1989, l’allora dirigente di Rai3 Angelo Guglielmi, Enrico Ghezzi e una squadra di autori e critici cinematografici coniano una metafora di successo: la TV come Blob – Fluido mortale, film horror fantascientifico del 1958. Nel film, il Blob è una creatura informe e gelatinosa che invade la Terra, si insidia nelle abitazioni e nei luoghi umani attraverso i condotti di aerazione e attacca gli uomini. Secondo Ghezzi e collaboratori, la televisione italiana del ‘89 era già di questa natura. Penetrata nelle case degli italiani - nei salotti prima, nelle sale da pranzo poi - senza fare rumore, si è diffusa nello spazio vitale e ha aperto un buco nella realtà umana, da cui sgorga, deborda un’altra realtà puramente immaginaria. Tale nuova realtà immaginaria, nella sua mollezza e plasticità, ha avvolto lo schermo tramite cui facciamo esperienza del mondo fuori di noi - in primis il nostro linguaggio - rendendo la cultura stessa gelatinosa, non più strutturata e strutturante. L’immagine della liquidità che ben si adatta ad assumere la forma imposta dai contenitori esterni, senza opporre resistenze, è ancora oggi molto utilizzata per comprendere lo spirito del tempo.



martedì 18 marzo 2014

IL RUOLO DELLA VERTIGINE NELLA FORMAZIONE DEI GIOVANI PSICOLOGI

Del bell’incontro di mercoledì 12 marzo con Pietro Barbetta e Nadine Tabacchi a cura di Rizoma, ciò che conservo è una vivida sensazione di vertigine. Ho cercato di parlarne con l’amica Nadine al termine del seminario, passeggiando per il centro storico.

(Continua su Uniurbpost:  http://post.uniurb.it/?p=5175)



domenica 16 marzo 2014

ATTUALITA' DI LACAN

Lacan non è un autore semplice. La sua opera è ostile alla lettura e alla comprensione. Lo si sente dire spesso e questo libro ci aiuta a capire perché. C’è infatti qualcosa di specifico, in Lacan, ad essere inafferrabile dalla comprensione.
Attualità di Lacan è un libro fatto di contributi filosofici e psicoanalitici. Sappiamo come le due scienze si compenetrino, si informino a vicenda nel suo pensiero. Qual è oggi lo stato dell’arte della filosofia e della psicoanalisi contemporanee? La figura del filosofo e quella dello psicoanalista si trovano oggi a ricevere una domanda comune: la produzione di senso. Interroghiamo lo psicoanalista perché manchiamo di senso, perché il sintomo appare come evento di non-senso. Partecipiamo ai festival di filosofia per costruire grandi narrazioni sui grandi temi dell’esistenza. In particolare, il mainstream psicoanalitico sembrerebbe oggi indirizzato a rendere il soggetto consapevole dell’inconscio, ad istruire l’individuo sul proprio inconscio, il che, come dice bene Alex Pagliardini, equivale ad annullare e bonificare questo calderone di cose scomode e fastidiose. «L’attualità speculativa di Lacan è così la sua inattualità rispetto all’epoca in cui ha vissuto  e si è formato» (Pagliardini, Ronchi, p. 12). Lacan rappresenta un punto di rottura all’interno dell’andazzo psicoanalitico del dopo Freud, quella psicoanalisi ferocemente criticata da Deleuze e Guattari ne L’Anti Edipo. Una psicoanalisi orientata a produrre individui integri e integrati alla società e al principio di realtà da questa dettato.

sabato 15 febbraio 2014

HOLY MOTORS


«La bellezza? Si dice che è nell'occhio, nell'occhio di chi guarda.»
«E se non c'è più nessuno a guardare?»

Per cosa si vive? Cosa ti spinge in avanti? Qual è il tuo sacro motore?
Se non c’è più nessuno a guardare, il lavoro da fare sarà doppio. Far esistere prima l’Altro, il motore delle nostre azioni e della nostra bellezza, aprire gli occhi del pubblico. Poi e solo poi, è possibile la scena. E quanti personaggi bisogna interpretare, quanta bellezza si deve produrre per tenere in vita il pubblico. Ma queste sono le regole del gioco (del cinema o della vita?).
Alla fine, abbiamo addosso la stanchezza del protagonista, della sua giornata lavorativa passata a recitare, emozionare, combattere, essere questo e quello, bello e brutto, per poi scoprire di essere niente o nessuno fuori dal campo visivo, fuori dalla scena che il suo sacro motore crea. E la nostalgia di quando la telecamera era ben visibile, quando «le macchine erano più pesanti di noi». Come a dire: ciò che mi fa vivere è il tuo sguardo, e che sia ampio, che sia grande.
La bellezza del gesto è tale per l’occhio che la guarda, ma la questione che si pone qui non è più di natura estetica. Quando l’occhio è ristretto fino a sembrare chiuso, quando la macchina da presa è diventata invisibile, «cos’è che ti fa andare avanti?».
AS



Holy Motors, di Leos Carax, 2012

domenica 1 dicembre 2013

ESERCITARE ŽIŽEK

Il filosofo più pericoloso d’Occidente – così lo definisce il New Republic – è noto al grande pubblico in primis per quello che si potrebbe definire il suo personaggio, le caratteristiche cioè che lo fanno inevitabilmente saltare all’occhio (non è cosa strana, questa, nella società dello spettacolo).Quando guardiamo la realtà, c’è un ordine, una certa compostezza delle cose per cui non abbiamo bisogno di soffermarci più di tanto e fare attenzione ai particolari che ritornano sempre nello stesso posto e allo stesso modo. Un ordine simbolico delle cose è la nostra realtà. In questo senso allora, Lacan diceva che la realtà è un sonno. La realtà così intesa – un ordine dove ogni cosa è al suo posto al punto da sembrare “naturale” – ha effetto anestetico sulla nostra percezione del mondo. Il senso di Žižek è allora schiaffeggiare l’ascoltatore proponendo e richiamando l’attenzione sui limiti della realtà, su ciò che, sempre Lacan, ha chiamato il reale.

(Continua su hæcceit@s web. Rivista online di filosofia, cultura e società: http://haecceitasweb.com/2013/12/01/esercitare-zizek/)

sabato 9 novembre 2013

FOLLIA E SRAGIONE

L'associazione culturale Rizoma incontra il prof. Mario Galzigna in occasione della recente pubblicazione del suo libro "Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo".
Fra i temi del libro, ritroviamo il tentativo di leggere, di guardare, di intendere la follia al di là della confisca istituzionale. Un'esigenza, questa, avvertita già da Michel Foucault - che della psichiatria ha investigato la dimensione coercitiva, le dinamiche di potere insite nel sapere psichiatrico, la riduzione del mondo della sragione a cosa medica da diagnosticare - e che Galzigna riprende e ripropone oggi, con Foucault e dopo Foucault. Interrogando i saperi tecnici delle scienze psi, il filosofo punta ad individuare i buchi delle reti teoriche, i momenti cioè in cui le categorie non riescono ad afferrare i fenomeni. Momenti preziosi, occasioni per una riflessione epistemologica. Occorre ribadire il primato dell'empirico sul categoriale, ci dice Galzigna.
Una possibilità di occuparsi della follia, dell'esperienza della follia fuori dai regimi discorsivi e disciplinari che la inquadrano, sta nella letteratura, nel testo di Joyce, di Artaud, nel linguaggio schizofrenico, dove la parola si disarticola, si libera dalle catene del senso e viaggia in direzione non dell'altro ma del mondo, dell'universo. Proseguendo su questa linea, è possibile rintracciare in tali luoghi, non tanto e non solo l'evento che minaccia la ragione, la normalità, l'evento da esorcizzare per mezzo dell'atto medico, ma le rivolte del pensiero, la dimensione insorgente, spaesante, sovvertitrice del pensiero.
Cosa ci fa un filosofo nella casa dei pazzi? Rilanciamo oggi la questione che già Esquirol, protagonista della psichiatria francese ottocentesca, si poneva. L'associazione Rizoma nasce con l'intento di creare spazi che ospitino la molteplicità, spazi di ibridazione, di contaminazione dei saperi, fra i saperi, con le pratiche. L'incontro con Mario Galzigna, in questo senso, con il suo lavoro, che si incrocia col nostro desiderio, ci sembra un momento prezioso.

AS


IL CORPO DEL LINGUAGGIO

Non c’è psicoterapia che non si articoli nella parola. La parola è il dispositivo fondamentale di qualsiasi cura “psi”. Seguendo la preziosa indicazione di Mario Galzigna, di un’epistemologia della connessione nel campo “psi”, credo che sia possibile rilevare il terreno comune a tutte le pratiche psicoterapeutiche – e forse anche a tutte le pratiche terapeutiche –  nella parola.

(Continua su hæcceit@s web. Rivista online di filosofia, cultura e societàhttp://haecceitasweb.com/2013/10/03/il-corpo-del-linguaggio/)


IL POSTO DEL SOGGETTO NELLA LOGICA STRUTTURALE

Esiste, all’interno degli studi lacaniani, uno snodo teorico molto importante. Dopo aver preso le mosse dall’ambiente culturale dello strutturalismo, Lacan deve compiere un ulteriore movimento per identificare la psicoanalisi come scienza del particolare il cui oggetto di studio sia la verità del soggetto. In effetti, le premesse teoriche dello strutturalismo portano da tutt’altra parte.

(Continua su Critica Impura: http://criticaimpura.wordpress.com/2013/07/05/il-posto-del-soggetto-nella-logica-strutturale-jacques-lacan-e-la-sovversione-inaspettata/)


CLAUDE LEVI-STRAUSS E L'ANTROPOLOGIA STRUTTURALE

Il sapere antropologico, per Lévi-Strauss, deve raccogliere in un sistema le differenze che provengono da fattori storici, sociali, ambientali, e le invarianze del funzionamento del pensiero umano. La ricerca di invarianti e di regolarità nel magma dei fenomeni sociali e la prevalenza accordata alle relazioni tra i termini di un insieme metodologicamente isolato, piuttosto che ai termini stessi, sono le caratteristiche del lavoro antropologico di Claude Lévi-Strauss (nonché dell’indagine strutturalista tout court). Infatti per Lévi Strauss “Il principio fondamentale è che il concetto di struttura sociale non si riferisca alla realtà empirica, ma ai modelli costruiti in base ad essa”.



giovedì 16 maggio 2013

ROMAN JAKOBSON, METAFORA E METONIMIA

Nel saggio Due aspetti del linguaggio e due tipi di afasia Jakobson afferma che “l’atto linguistico implica la selezione di certe entità linguistiche e la loro combinazione in unità linguistiche maggiormente complesse”.  Per parlare in modo comprensibile l’individuo deve scegliere le parole, o meglio i significanti adatti ad esprimere il suo pensiero e combinarli in modo sintatticamente corretto. “Ma il parlante non è in alcun modo un attore completamente libero nella scelta delle parole: la sua scelta (ad eccezione dei rari casi di autentico neologismo) deve essere fatta nell’ambito del patrimonio lessicale che egli stesso ed il destinatario del messaggio possiedono”.

(Continua su Critica Impura: /http://criticaimpura.wordpress.com/2013/04/11/roman-jakobson-direttrice-metaforica-e-direttrice-metonimica-del-linguaggio/)
 


LACAN E DE SAUSSURE. PSICOANALISI E STRUTTURALISMO



Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è al tempo stesso, fin dall’inizio, psicologia sociale.
Sigmund Freud, 1921


Nella psicoanalisi del dopo Freud, durante tutto il secolo scorso, si sono formate numerose diramazioni teoriche che possono esser fatte risalire a due modelli epistemologici alternativi: il modello evolutivista ed il modello strutturalista. Sono modelli che vengono entrambi ricavati dall’opera di Freud, la cui lettura può essere interpretata sia in un senso sia nell’altro.

(Continua su Critica Impura: http://criticaimpura.wordpress.com/2013/03/24/jacques-lacan-e-ferdinand-de-saussure-la-psicoanalisi-del-dopo-freud-e-lo-strutturalismo-linguistico/)



mercoledì 16 gennaio 2013

JACQUES LACAN, LETTORE DI FREUD


La storia della psicoanalisi è costituita da un unico punto di partenza e numerose diramazioni, alcune più affermate e riconosciute, altre meno. Le oltre settemila pagine dell’opera di Freud sono così ricche e dense che il quadro completo del lavoro freudiano risulta, per questi ed altri motivi, eterogeneo e sfaccettato. D’altronde non poteva che essere così, se pensiamo che un solo uomo si è trovato a dover sistematizzare - ex novo e nell’arco di una vita umana - una teoria, una scienza, una pratica terapeutica, uno studio dell’umano quale la psicoanalisi.

Se risulta difficile mettere a fuoco l’intera opera freudiana, per la sua vastità ed eterogeneità, è d’altro canto facile vedere come, in più di un secolo di storia, si siano formate ed individuate numerose scuole e numerose teorie, tanto che - come ribadisce Mario Rossi Monti - oggi sarebbe più esatto parlare di Freud come del nonno della psicoanalisi, piuttosto che il padre, dal momento che la «famiglia analitica» nel corso di un secolo si è felicemente allargata. Sarebbe, inoltre, più pertinente parlare delle psicoanalisi piuttosto che della psicoanalisi.[1] Le diverse scuole psicoanalitiche del dopo Freud si sono formate sulla base di diverse interpretazioni del testo freudiano; quello che differenzia una scuola da un’altra è principalmente l’enfasi su una particolare lettura e la maggiore o minore distanza dall’ortodossia.

Il bivio ermeneutico più conosciuto è forse quello che vede da una parte l’attenzione privilegiata al mondo psichico, alla realtà psichica del soggetto, alle fantasie e alla costituzione del pensiero, in definitiva l’endopsichico; dall’altra parte la maggiore considerazione dell’ambiente esterno, dello spazio relazionale e delle influenze ambientali sulla costituzione del mondo psichico del bambino. Ancora, alcune letture si sono impegnate a rimanere ben ancorate alla parola di Freud, mentre altre hanno optato per la deriva verso zone inesplorate, chi con gli strumenti dati da Freud e chi rivisitando gli strumenti stessi.

La singolarità dell’approccio dello psicoanalista parigino Jacques Lacan alla psicoanalisi freudiana si colloca in questo contesto. Negli anni in cui la seconda generazione di psicoanalisti doveva raccogliere l’eredità lasciata da Freud, Lacan si fa autore di una lettura del testo freudiano permeata dalle nuove acquisizioni scientifiche del primo Novecento nell’ambito delle scienze umane. Egli affronta l’opera di Freud in primis utilizzando la lente della moderna linguistica strutturale inaugurata dall’insegnamento di Ferdinand De Saussure: lo studio del linguaggio – che Saussure intende nella doppia scansione significante/significato – applicato alla psicoanalisi. In questa ottica è possibile dare una rilevanza forte al fenomeno di parola - concetto diverso da quello di linguaggio - cogliendo tutto ciò che è implicito in esso. 

Per Lacan come per molti altri pensatori del Novecento,  l’essere umano nasce, cresce e muore all’interno di una rete, di un contesto condiviso da tutti - e che caratterizza come “umano” il mondo della realtà - all’interno del quale si danno tutte le manifestazioni universali dell’umano: la cultura, i simboli, i rituali, la comunicazione. Questo universo coincide con il linguaggio, l’ordine simbolico del linguaggio. Non si dà esperienza umana, per Lacan, se non all’interno del linguaggio, inteso come dispositivo che mette ordine, simbolizza e rende condivisibile il mondo e la sua molteplicità ed eterogeneità. 

Il fatto che l’uomo parli è un fenomeno tanto comune quanto denso di implicazioni. Che cos’è la parola? Si differenziano tra loro i fenomeni di parola ed il linguaggio? Uno studio sistematico di questi argomenti, quale quello di Saussure, ha portato chiarezza su concetti che il senso comune mescola facilmente: parola, linguaggio, lingua, senso, significante, significato ed altri ancora. Lacan fa tesoro – “tesoro dei significanti”, come suole definire il luogo dei significanti, ovvero l’Altro – della linguistica di Saussure e la applica, o per meglio dire, la implica alla scienza psicoanalitica: la catena di significanti che il soggetto srotola durante la sua talking cure [2] produce qualcosa di più di ciò che è nelle intenzioni comunicative del soggetto. L’essere umano parla tramite il suo io, la sua volontà, ma pure c’è una autonomia dell’atto di parola, un voler dire o un non voler dire, un malinteso, un inciampo, un lapsus. 

Ecco allora l’inconscio, la grande scoperta freudiana. I punti nodali che Lacan accosta sono proprio l’inconscio e la struttura linguistica. Cosa significa, allora, dire che l’inconscio è strutturato come un linguaggio? Di questo universo simbolico, mondo umanizzato e reso tale dal linguaggio, deve far parte anche l’inconscio freudiano. Se il linguaggio prende l’uomo addirittura da prima della sua nascita biologica, come può l’inconscio non essere fatto anch’esso di linguaggio? 

È questa la tesi di Lacan: l’inconscio risponde alle stesse leggi che regolano il discorso cosciente. «Quando Freud ci parla dell’inconscio, non ci dice che esso è strutturato in un certo modo, eppure ce lo dice, nella misura in cui le leggi che propone, quelle della composizione dell’inconscio, ricalcano alcune delle leggi di composizione fondamentali del discorso.»[3] Il punto in cui discorso cosciente ed inconscio si toccano sta nelle regole linguistiche alle quali, per essere tale, qualunque linguaggio non può non sottostare. Tra queste, di primaria importanza per spiegare gli effetti di produzione (o trattenimento) di significato sono le figure retoriche della metafora e della metonimia, descritte nella loro logica e funzionamento dal linguista russo Roman Jakobson e da lui definite come direttrici semantiche del discorso. La metafora e la metonimia sono proprietà linguistiche basilari che qualificano il linguaggio. 

Dal canto suo, Freud era già venuto a conoscenza di meccanismi linguistici del genere quando ne L’interpretazione dei sogni descriveva le due operazioni fondamentali tramite cui il sogno prende forma: la condensazione e lo spostamento. Senza saperlo, Freud parlava di operazioni linguistiche dell’inconscio che sono perfettamente paragonabili a quelle del discorso conscio. Parlare di condensazione è come parlare di metafora; spostamento è sinonimo di metonimia. Così come il sogno, allora, tutte le cosiddette formazioni dell’inconscio possono essere interpretabili nella loro natura di operazioni linguistiche. Il sintomo, il lapsus, l’atto mancato, il motto di spirito, il sogno sono tutti fenomeni di linguaggio dove un contenuto inconscio assume una forma - di compromesso - per poter accedere alla coscienza, per essere espresso. Perché l’inconscio, in Freud come in Lacan, parla, spinge per esprimersi, chiama risposta.

Freud non ha potuto sovrapporre il campo della sua giovane scienza a quello della linguistica moderna semplicemente per motivi cronologici. Ma è rintracciabile, nella sua opera, un’ ideale formazione psicoanalitica all’interno di un contesto di studi letterari e linguistici, oltre che di antropologia, mitologia ed altri studi umanistici. 

È Freud stesso, dunque, ad intravedere quel fondo in cui la natura umana è abolita dalla cultura, in cui l’animale uomo con il suo corpo è segnato irreversibilmente dal significante e trasformato in essere umano, sociale, culturale, diviso dalla sfera istintuale o pulsionale a vantaggio del programma della Civiltà, del legame sociale, della comunità. Il discorso che l’Altro tiene sul soggetto, ovvero le parole che sono state pensate ed enunciate per il neonato, è il primo passo verso la conquista del linguaggio: inizialmente passivo e parlato dall’Altro, il soggetto dovrà far proprio il linguaggio, soggettivarlo, pronunciare e pronunciarsi per, infine, collocarsi nel simbolico.

Il linguaggio, lungi dal’essere solo uno strumento di comunicazione, coincide in Lacan con l’ordine simbolico del mondo, vale a dire il mondo degli esseri parlanti che fanno legame sociale, si organizzano in comunità, rimandano il rapporto sessuale, dispongono del funerale e della sepoltura come rito per simbolizzare la morte. Il linguaggio è davvero l’origine della civiltà; è ciò che struttura il mondo umano. 

Come ci si posiziona nel simbolico? Dal dialogo con l’antropologo Claude Lévi-Strauss, Lacan ricava una concezione strutturale dell’Edipo freudiano e lo descrive come il crocevia strutturale per eccellenza tra lo stato di natura e quello di cultura. Il bambino che vive appieno le fasi cruciali di questo periodo dell’infanzia ne uscirà «con i titoli in tasca»[4], con la possibilità cioè di fare appello, in futuro, alle identificazioni che lo sosterranno quando sarà il momento di prendere una posizione nel mondo simbolico degli esseri umani. L’Edipo è, secondo le indagini di Lévi-Strauss, un dispositivo universale. L’introduzione di un tabù, di una zona interdetta e, in definitiva, di un primo cardinale “No” sembra essere un dato presente in tutte le culture. 

Un insegnamento in negativo di quanto detto finora è quello della psicosi. Al cuore della struttura di psicosi, sia per Freud sia per Lacan, c’è un buco, un rigetto nel simbolico, un significante fondamentale che non si è inscritto nell’apparato significante del soggetto. Il soggetto, cioè, manca letteralmente di un significante utile a leggere una parte del mondo, e quando dal mondo arriverà un appello al soggetto che chiama in causa questo significante, la risposta del soggetto psicotico sarà la confusione, la perplessità, quella perdita dell’evidenza naturale che in un secolo di psicopatologia fenomenologica è stata ampiamente descritta. In seguito la ricostruzione delirante, la metafora delirante e i fenomeni allucinatori, in cui ciò che era stato rigettato nel simbolico, mai inscritto nel simbolico, qualcosa di mai simbolizzato ritorna nel reale sotto forma di allucinazione uditiva.

Accedere alla realtà umana significa accedere al linguaggio. Accedere, cioè, all’ordine simbolico del linguaggio normativizzato dalla legge edipica, la legge della parola, di cui il padre è il rappresentante. Lo stesso padre che distoglie il bambino dall’identificazione narcisistica  all’oggetto del desiderio materno e gli propone un’identificazione simbolica nella forma dell’Ideale dell’io. Dal luogo e dal tempo in cui si è tutto e si ha tutto, la funzionalità dell’Edipo sta proprio nel fare del bambino un soggetto che rinunci al suo desiderio di essere Uno con il materno e che articoli un proprio desiderio nel linguaggio e nell’Altro. 

Si potrebbe parlare, con Agamben, del linguaggio come di un dispositivo, ossia «qualunque cosa che abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi.» Come a dire, dal momento in cui c’è linguaggio, c’è istituzione, c’è una regola di comportamento, qualcosa che dispone l’essere umano in un dato senso. Per Agamben, infatti, il linguaggio è «forse il più antico dei dispositivi, in cui migliaia e migliaia di anni fa un primate probabilmente senza rendersi conto delle conseguenze cui andava incontro ebbe l’incoscienza di farsi catturare.»[5]



AS

[1] Rossi Monti M., discorso introduttivo al seminario La questione dell’analisi laica, ovvero della psicanalisi, Urbino, 11 dicembre 2012.
[2] Che la cura avvenga tramite la parola era chiaro già a Bertha Pappenheim, alias Anna O. nello scritto Studi sull’isteria di Breuer e Freud. Quello che Lacan apporta di nuovo è l’approfondimento logico di questo fenomeno.
[3] Lacan J., Il seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio. 1957-1958, , a cura di Di Ciaccia A., Einaudi, Torino 2004.
[4] Ivi, p. 172.
[5]  Agamben G., Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006, pp. 21-22.

martedì 30 ottobre 2012

FARE RIZOMA E NON METTERE RADICI

Rizoma è il nome di un'associazione studentesca e culturale che abbiamo creato da poco. Siamo un piccolo gruppo di studenti della Carlo Bo e con questo dispositivo ci proponiamo di portare un contributo, in termini di eventi culturali, nell'ambiente universitario.
Abbiamo fondato Rizoma perché vogliamo diventare i creatori di quello che ci piacerebbe vedere negli ambienti universitari: più spazio.
Spazio agli eventi culturali;
spazio alle scienze dell'uomo, all'antropologia, alla filosofia, alla psicoanalisi, alla linguistica, alla letteratura, alla critica letteraria, oltre che alla psicologia;
spazio ai seminari multidisciplinari;
spazio alla formazione e anche all'informazione (sui fatti e non dei fatti, direbbe Carmelo Bene);
spazio all'arte in tutte le sue forme;
spazio alla riflessione e al pensiero critico, cos'è scienza? cosa non lo è?
spazio alla cultura, ai laboratori culturali.
Vogliamo utilizzare questo dispositivo per creare spazi culturali.
Crediamo che ci sia poca comunicazione fra il sapere interno all'università e quello esterno ad essa, seppur per motivi logici e naturali. Con Rizoma ci proponiamo di creare questa comunicazione.
Rizoma è Alessandro Siciliano, Stefano Paternò, Cristel Marcelletti Lattanzi, Edoardo Grisogani, Alberto Vacca Lepri.


AS

venerdì 14 settembre 2012

SALENTO E MAGIA



Ogni anno, in agosto, diversi comuni salentini si fanno teatro della più importante tradizione del folclore del luogo. Anzi, oserei dire dell'intero folclore italiano, a giudicare dal successo esponenziale riscosso nel tempo: un pubblico di più di 100.000 persone, maestri d'orchestra del calibro di Goran Bregović, Ludovico Einaudi, Mauro Pagani, fino ad essere proposta al di là dei confini geografici e soprattutto culturali, in città come Pechino, Amman e Duisburg. Parlo della Notte della Taranta, festival di musica popolare salentina con epicentro a Melpignano, il comune dove si realizza il concertone finale. Negli ultimi anni sembra esserci stato un vero e proprio contagio, sempre più gente si è appassionata alla danza e alla musica e credo che sia difficile, ad oggi, vedere persone non ballare, non muoversi a ritmo, all'ascolto di una pizzica. Credo che l'idea sia condivisibile da chiunque: la pizzica è una musica che è stata creata allo scopo di far muovere il corpo. Sembra proprio che il corpo vada da sé; l'impulso a ballare, a muoversi, si fa sentire benissimo, specialmente nelle donne. Un fatto, questo, che si conosceva bene alle origini del fenomeno del tarantismo.
"Tarantismo" è il termine che descrive un fenomeno socio-culturale che ha caratterizzato il Salento fin dal Medioevo. Scomparso come rito culturale, oggi viene rievocato sotto forma di festa, di pizzica da ballare nelle piazze salentine e non. Si trattava effettivamente di una sorta di danza, ma tutt'altro che divertente. 
La leggenda narra che il morso della taranta, un ragno che si aggirava nei campi di coltivazione, provocava crisi isteriche convulsive. La tradizione popolare riteneva che alcuni musicanti fossero in grado, suonando la "pizzica", di guarire o almeno lenire lo stato di "pizzicata". Attraverso una suonata, che poteva durare anche giorni, cercavano di trovare la combinazione di vibrazioni con le note dei loro strumenti. Venivano utilizzati diversi strumenti, in particolare il tamburello, diventato poi un simbolo di questa tradizione. Ancora oggi sono diffuse espressioni scherzose del tipo "Ti ha morso la tarantola?" rivolte soprattutto a bambini vivaci o persone particolarmente irrequiete. La donna che si supponeva essere stata pizzicata dalla taranta, o tarantola, prendeva il nome di tarantata. In realtà, diverse ricerche hanno ampiamente dimostrato che il morso della tarantola, seppur molto doloroso, è praticamente innocuo. La taranta era, quindi, l'animale simbolico che fungeva da capro espiatorio. Le vittime erano frequentemente giovani nubili donne in età da matrimonio, in periodo estivo. Un gruppo di musicanti faceva ballare la tarantata fino allo sfinimento, nella speranza di estirpare il veleno dal corpo. La cura era quindi focalizzata sul corpo.
Si trattava di magia, di pensiero magico sull'eziologia, la diagnosi e la cura. Ma la denotazione di pensiero magico può trarre in inganno, perché fa spesso pensare a popoli ignoranti che non posseggono i nostri strumenti conoscitivi, scientifici e quindi esatti. Quando si studiano i fenomeni culturali in vivo, ci si accorge della ricchezza simbolica di simili pratiche.
Ernesto De Martino è stato un importante antropologo ed etnografo italiano che si è occupato, per tutta la sua carriera, nel corso della prima metà del Novecento, della questione del Sud e delle sue tradizioni culturali e religiose. Nel 1959 De Martino raggiunge Galatina, provincia di Lecce, per osservare e studiare il fenomeno del tarantismo e per provare a comprenderlo ed interpretarlo alla luce delle conoscenze psicoanalitiche, che in quegli anni rappresentavano uno strumento rivoluzionario nelle mani delle scienze umane. I risultati della ricerca sono stati successivamente condensati nel libro "La terra del rimorso - contributo a una storia religiosa del Sud". Dallo studio del contesto culturale e di alcuni casi, De Martino arriva a concludere che il tarantismo poteva essere considerato come  


Un dispositivo simbolico mediante il quale un contenuto psichico conflittuale che non aveva trovato soluzione sul piano della coscienza, e che operava nell'oscurità dell'inconscio rischiando di farsi valere come simbolo nevrotico, veniva evocato e configurato sul piano mitico-rituale, e su tale piano fatto defluire e realizzato periodicamente, alleggerendo del peso delle sue sollecitazioni i periodi intercerimoniali e facilitando per quei periodi un relativo equilibrio psichico.
Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961.            
       
 
Un conflitto tra istanze diverse del soggetto, vale a dire un pensiero, un discorso soggettivo, personale,  "non trova soluzione sul piano della coscienza", quindi non può esser detto, non si riesce a tradurlo, ad esternarlo tramite il linguaggio. O meglio, tramite la parola. Quando la parola non può esprimere tutta la verità del soggetto, questa verità può farsi presente in altri modi nel campo del linguaggio, nel campo del simbolico. Ecco, allora il "dispositivo simbolico" di cui parla De Martino.
Questo discorso sull'antropologia culturale può essere fatto continuare nel campo attiguo della psicoanalisi. Abbiamo a disposizione la lezione dell'isteria, patologia mentale il cui studio da parte di Freud ha segnato gli inizi della scienza psicoanalitica. "La clinica dell'isteria è una clinica del corpo" dice Massimo Recalcati, compendiando Freud e Lacan. La conversione somatica è appunto conversione del conflitto psichico inconscio in fenomeni che riguardano il corpo, che vedono protagonista il corpo nella messa in scena di pensieri che non hanno accesso alla coscienza. Corpo simbolico, continua Jacques Lacan, perché questo corpo, lungi dall'essere ridotto all'organismo, è rivestito dei simboli che la storia, la cultura e la famiglia offrono all'individuo. I vestiti, il taglio di capelli, la gonna più lunga o più corta, i piercing, i tatuaggi. Ma anche le posture, le gestualità, il modo di camminare e di muoversi. Il corpo, in quanto segnato dai simboli, parla di noi. Da una parte c'è l'organismo, che può ammalarsi, danneggiarsi, essere bersaglio di virus e poi necessitare di cure e terapie; dall'altra parte c'è il corpo, che parla, che può farsi "teatro di una messa in scena significante", dice Lacan, che può cioè essere il  soggetto di tutti quei quadri isteriformi (ma non solo!) che la psichiatria organicista non riesce ancora oggi a spiegare. Il sintomo di conversione somatica è il rappresentante simbolico di un pensiero rimosso.
Quando De Martino parla di dispositivo simbolico si riferisce a questo. Simbolico è quel linguaggio, propriamente umano, messo in luce da Jacques Lacan, in cui le cose significano altre cose e queste altre ancora. Tramite il simbolo l'uomo ha la possibilità di mettere in forma i contenuti dell'inconscio. Questi simboli costituiscono la cultura di un popolo e sappiamo, dagli studi di Claude Lévi-Strauss, che tutti i popoli utilizzano il simbolo come codice culturale. Lévi-Strauss esplicita l'idea di un ordine simbolico strutturante la realtà interumana.

Ogni cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici in cui, al primo posto, si collocano il linguaggio, le regole matrimoniali, i rapporti economici, l'arte, la scienza e la religione.
Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1980.          

Da una cultura scaturiscono le regole per i rapporti sociali e la vita di comunità, ma con le regole si danno anche le eccezioni, le modalità che un individuo deve assumere per manifestare un disagio, un conflitto inconscio. Georges Devereux, con i suoi studi di etnopsichiatria, ha mostrato che la cultura forgia modi di essere normali e patologici. Come a dire: "Non impazzire! Ma se non ci riesci, allora fallo in questo modo."
Così dalla storia e dalla cultura del Salento è nato il fenomeno del tarantismo. Il Sud Italia, per De Martino, era la terra del rimorso, "terra del cattivo passato che orna e opprime col suo rigurgito".

Questa è la terra di Puglia e del Salento, spaccata dal sole e dalla solitudine, dove l'uomo cammina sui lentishi e sulla creta. Scricchiola e si corrode ogni pietra da secoli. Anche le pietre squadrate, tirate su dall'uomo, le case grezze, le chiese destinate alla misura del dolore e della speranza, seccano e cadono nel silenzio. Avara è l'acqua a scendere dal cielo, gli animali battono con gli zoccoli un tempo che ha invisibili mutamenti. È terra di veleni animali e vegetali qui cresce nella natura il ragno della follia e dell'assenza, si insinua nel sangue di corpi delicati che conoscono solo il lavoro arido della terra, distruttore della minima pace del giorno. Qui cresce tra le spighe di grano e le foglie del tabacco la superstizione, il terrore, l'ansia di una stregoneria possibile, domestica. I geni pagani della casa sembrano resistere ad una profonda metamorfosi tentata da una civiltà durante millenni.
 Salvatore Quasimodo, commento a La Taranta, documentario di Gianfranco Mengozzi, 1962.               





































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